Il 12 Gennaio 2019, negli spazi del MICRO ( Viale Mazzini 1, Roma ) è stata inaugurata una mostra dallo stile personalissimo: “Pensieri Tridimensionali” di Attilio Nesi.

Architettura, scultura e pittura : queste sono le parole chiave che descrivono l’approccio artistico di Nesi. L’ osservatore trovandosi dinanzi a tali opere compie un viaggio nella sfera personale dell’artista, una sfera che non trova spazio nella classica staticità dell’arte. Al contrario, Nesi predilige l’ utilizzo di materiali non convenzionali, caratterizzati da forme plastiche fuoriuscenti dalla stessa tela.

L’artista è infatti alimentato dall’idea che l’arte debba emozionare e sorprendere.

Il suo stile particolare costituisce un unicum che ci è dato soprattutto dalla sua formazione architettonica, oltre che pittorica, dedicando ad entrambe analoga passione e dedizione. Inserito giovanissimo nell’ambiente artistico ha dedicato tutta la sua vita all’arte. Guidato inizialmente dalle influenze del padre Giuseppe ( amante dell’arte in ogni sua sfaccettatura ) ereditò con affetto questa sua passione, avviandosi successivamente verso un’altra forma artistica: l’architettura.

A questo punto decise di unire entrambe le discipline e, tale scelta, contribuì alla nascita di una ricerca pittorica intitolata “Parole tra il rosso e il nero”, sperimentando un metodo frattale.


Questi studi in particolare costituirono un elemento cardine per quanto riguarda la creazione delle pittosculture, derivanti dal titolo stesso della mostra. La peculiarità ti tali opere si caratterizza dal rapporto spazio/forma che qui viene interpretato in una chiave del tutto nuova.

L’opera interagisce con lo spazio circostante creando un continuo movimento, dando così vita ad un solido legame indissolubile in grado di spezzare la classica divisione tra spazio e forma, diventando un tutt’uno. Ciò che ne possiamo nuovamente dedurre è che Nesi va oltre la tradizione.

Ma scopriamone di più con l’intervista che gentilmente Attilio Nesi ci ha rilasciato :

Come si è avvicinato alla pittura? 

Ho iniziato a dipingere da giovanissimo, incoraggiato e guidato da mio padre: un bravo medico che amava l’arte quanto il mestiere che, per necessità, doveva considerare primario (8 figli!); cosa che non gli impediva di dedicarsi alla poesia, alla pittura e alla musica con la stessa continuità, la stessa passione e con una significativa inclinazione. Da bambino – la mia famiglia, allora, viveva in Calabria -, ho anche frequentato un pittore professionista e insegnante d’arte, un grande amico di mio padre che ha molto consigliato lui e me, compensando efficacemente l’assenza di una scuola. Il suo nome era Giorgio Pinna, un artista e una bella persona che, ancora oggi, ricordo con affetto! Da quegli anni, non ho mai smesso di dipingere; anche se, dopo i 18 anni, con il mio trasferimento a Roma, nella mia vita, l’architettura ha affiancato la pittura, prima da studente, poi da progettista e da docente universitario. Di recente, ho accettato l’idea di non poter esercitare le due attività con lo stesso impegno; la pittura ha, quindi, preso il sopravvento sull’architettura.

Come nascono i suoi quadri?

Le origini alle quali ho accennato, per molto tempo, hanno orientato la mia pittura verso un figurativismo allusivo e simbolico, molto plastico, spesso contaminato da tecniche di rappresentazione neocubiste. A lungo, i miei quadri, sempre ad olio, furono ispirati dalle “ragioni” di un oggetto da rappresentare. La ricerca di un’identità pittorica restò a lungo un’esigenza secondaria: era trainante il pensiero di un “tema” (in prevalenza, persone e oggetti), da rappresentare nei confini della singola tela. Con qualche citazione inconsapevole, senza rinunciare alla riconoscibilità degli elementi. I quadri nascevano direttamente sulla tela, dopo un abbozzo disegnato con velocità. Come mio padre, ero affascinato dall’identità e dalla spiritualità delle persone, quanto dalla storia e dal mistero degli oggetti, che poche volte riprendevo dal vero: le situazioni erano, più spesso, trascinate sulla tela dal ricordo; a volte, solo immaginate, comunque, sempre appartenenti al mondo visibile. Ogni singolo quadro era il frutto di un’ispirazione, e non aveva bisogno di essere spiegato, la narrazione era sempre chiara ed esplicita. Questo tipo di approccio è stato superato negli ultimi quindici anni: una svolta avvenuta in un periodo “particolare” della mia vita e con un intermezzo di apparente inattività, durato circa due anni, in cui ho accumulato, su taccuini tascabili, solo appunti e schemi disordinati. In questo periodo, il mio modo di pensare e costruire la pittura è cambiato radicalmente: Il quadro ha perso la sua singolarità, è diventato parte di un “progetto pittorico”, non più compresso tra i limiti spaziali e temporali della tela: opere e progetti possono durare settimane, mesi o, addirittura, anni. E i quadri, tutti uguali e tutti diversi, sono prodotti con la gioia che normalmente dà il godimento di un viaggio; con la libertà di lavorare in simultanea su più opere e di non finirne alcune. Oltre a perdere la sua singolarità, l’opera non è più prodotta in modo diretto sulla tela, ma nasce da studi preliminari e dalla predisposizione di un “tavolo di lavoro”, sul quale pennelli e tavolozze convivono con un’ampia gamma di materiali atipici e con gli attrezzi necessari per la loro trasformazione e per il loro fissaggio. La realizzazione del supporto, la struttura dell’opera, l’insieme degli incastri, dei riempimenti, degli strati e delle finiture, danno senso “costruttivo” all’opera; come dicevo, in un processo che viene progressivamente vissuto, senza l’ansia di arrivare. Le opere cambiano e crescono con una progressività non lineare, che può fermarsi in un qualunque momento, o durare all’infinito. In questa fase, che vivo ancora oggi, ho “rinnegato” la rappresentazione diretta della realtà visibile; senza, per questo, che le cose che produco possano essere definite “irreali”; anzi, proprio perché guardano all’invisibile e al non rappresentabile, ritengo che risultino “più che reali”!

Cosa di un suo dipinto mette meglio a luce la sua personalità artistica?

Riferendomi alle attività più recenti e all’oggi, penso che uno dei caratteri dell’opera che mette bene in luce la mia personalità artistica sia la sua collocazione in un “processo” programmato; insieme alla “processualità” che determina la sua specifica “costruzione”. I termini “programmare”, “processo”, “costruzione”, generalmente estranei al pensiero e al linguaggio dell’arte, sono presi in prestito dal mondo in cui ho operato per qualche decennio come ricercatore e docente di architettura, privilegiando le problematiche costruttive e la processualità delle realizzazioni architettoniche. In realtà, ciò che più mi coinvolge è la sfida di far convivere il metodo che accompagna il processo, con l’ispirazione artistica e con la ricerca di assoluto alla quale l’arte non deve mai rinunciare. A questo, aggiungerei che le mie opere più recenti soddisfano anche una mia vocazione “artigianale”: riuscire a superare la staticità della pittura tradizionale, uscire dai confini della tela, confrontandomi con materiali non convenzionali e, lavorando, avvertire la fatica nelle mani; vivere “fisicamente” la mia creatività e, nella trasformazione del materiale, misurarmi coi miei limiti fisici. Tutto questo mi coinvolge, mi soddisfa pienamente, mi dà gioia! Altro elemento che consente al mio spirito creativo di identificarsi con l’opera è la sperimentazione di un “metodo frattale”; una sperimentazione che, in qualche modo, si sovrappone alla “processualità” di cui ho detto in precedenza. Questo metodo nasce dall’obiettivo che i principi pittorici e costruttivi che adotto abbiano senso e riconoscibilità nel dettaglio, quanto nell’opera singola e nell’insieme dell’opere: l’opera frattale nasce dall’utilizzazione di “moduli” materiali e geometrici, controllando la misura e la lavorabilità degli oggetti componenti. Questi “moduli” sono tra loro aggregati, grazie a principi compositivi e costruttivi validi per il dettaglio e per gli insiemi. Realizzo, così, un “ordine progettuale” più o meno esplicito; senza, però, rinunciare al piacere di distorcere le regole, dopo averle individuate. E’ una sorta di elaborazione teorica che si applica al quadro e si espande oltre i suoi limiti, attraverso l’atto creativo; un principio di costruzione che confligge, in modo vitale, con uno di decostruzione, per il quale la ricerca della “verità” si sviluppa attraverso la variazione delle valutazioni critiche e la molteplicità dei rimandi da un’opera all’altra. In un certo senso, è come se, nel mio percorso, l’espressività sostanziale dell’opera volesse restare incompiuta….! E la ricerca non si ferma, anche quando, rispetto a una singola opera, abbandono il mio ruolo di operatore, diventando osservatore.

Perché “Pensieri tridimensionali”?

Il titolo dato all’ultima mostra: “pensieri tridimensionali “, nasce dal fatto che le opere proposte, tutte realizzate tra il 2013 e il 2018, sono pittosculture, opere ibride in cui il colore si inserisce e completa una sperimentazione tridimensionale pseudo-scultorea. Non si tratta di un processo scolastico lineare che mi ha portato dalla bidimensionalità alla spazialità; infatti, altre mie opere, non esposte nella mostra, pur realizzate su superfici, restituiscono livelli, relazioni e tagli che rimandano, comunque, a esplorazioni indiscutibilmente spaziali. La selezione, con l’obiettivo della “provocazione”, è suggerita, invece, dalla constatazione che il nostro tempo, condizionato in modo crescente da vocazioni mercantili e da relazioni virtuali che hanno contaminato anche l’arte, si esprime e comunica, sempre più ostinatamente, attraverso superfici, che, con finalità mediatiche, propongono una tecnologia bulimica multimediale, mutevole, virtuale, spesso fatua……! Una tendenza deviante che, per il nostro campo, rischia di svuotare il pensiero creativo dell’artista e di limitarne seriamente quello critico; alimentando, così, l’altra tendenza, catastrofista, secondo la quale la pittura sarebbe da considerarsi morta, in favore degli “eventi”, delle invenzioni multimediali e interattive, delle azioni performative degli “artisti”. Mi piace sperare che la mostra, con la sua tridimensionalità, possa contribuire a frenare questo dominio imperante della “superficie”, contrapponendogli l’espressività del materiale, la concretezza delle tre dimensioni, la centralità dell’artista nella ricerca affannosa della sua “verità” creativa. E possa, indirettamente, rilanciare la certezza che pittura e scultura possano ancora emozionare e sorprendere, sia pure “dilatando i confini della singola opera” (bella, a questo proposito, la recente difesa di Massimo Recalcati, nel suo recente Il mistero delle cose).

Le sue opere sono realizzate di getto o c’è uno studio, un bozzetto preparatorio, per la realizzazione?

In parte, ho già risposto a questa domanda…. Ribadisco che le mie opere più recenti hanno una crescita graduale, tendenziosamente progressiva e “aperta”, che non esclude ripensamenti, “demolizioni” e “ricostruzioni”. Nascendo con la missione di sviluppare un progetto più ampio, l’ispirazione della singola opera, può essere spontanea (e lo è quasi sempre), ma mai casuale! Rispetto al pensiero che guida la crescita del progetto, l’azione sul singolo quadro può verificarsi in qualunque momento. Cosa che avviene, quasi sempre, partendo da uno schizzo assai piccolo e sintetico, arricchito di annotazioni di massima che precisano materiali, colori dominanti e dimensioni. Richiamando il progetto di architettura, definirei, questa, una fase “preliminare”. Quasi sempre e dopo non molto tempo, segue una seconda fase di scala maggiore, che meglio definisce il supporto, i materiali e gli elementi semilavorati, i colori e la logica costruttiva del quadro. Sempre con riferimento al progetto di architettura, definirei questa seconda fase: “definitiva-esecutiva”. A questo punto, ho tutto per passare all’esecuzione: con la preventiva preparazione del “tavolo di lavoro”; costruisco e “preparo” da me anche i supporti, e i piani si riempiono di strumenti più o meno ordinati; una sorta di piccolo “cantiere”, con materiali, attrezzature e schemi di lavoro.

Nelle sue opere c’è un messaggio nascosto che il fruitore dovrebbe individuare? Cosa vorrebbe raccontare e trasmettere?

Non tutte le mie opere nascono per essere presentate a un pubblico. Normalmente, con periodicità variabili, ne seleziono un certo numero, quelle che esprimono con chiarezza il “progetto pittorico” che le ha ispirate. Si tratta di decisioni e piccole strategie di comunicazione che solo parzialmente possono dar conto delle ragioni che, per me, devono interfacciare l’artista con le sue opere e con gli osservatori esterni.Quando, in precedenza, ho accennato alla fedeltà della singola opera a un progetto pittorico, ho forse trascurato di sottolineare che nel mio operare ho preso coscienza del fatto che l’opera d’arte sia sempre portatrice e custode del vissuto dell’artista; dei suoi ricordi e, certamente, della sua memoria che trascina nell’opera molti elementi non rimossi e tanti altri di cui non ha più consapevolezza.  Questo trasferimento, dall’artista all’opera, è così problematico e complesso, in qualche modo misterioso, da far ritenere impossibile che il quadro racconti all’osservatore le ragioni esplicite dell’artista, tantomeno quelle inconsce prodotte dalla sua psiche. E’ più giusto pensare che l’opera d’arte possa e debba esprimere solo se stessa, rappresentando un suo inconscio autonomo. Per indagare questo inconscio e capire qualcosa del mondo che esso racchiude è, quindi, più giusto puntare direttamente sull’incontro dell’’osservatore con l’opera, più che con l’artista! Convinto di tutto questo, mi limito a sperare, a proposito delle mie opere, che nell’”incontro” si realizzi un avanzamento della consapevolezza dello stesso osservatore e che l’opera lo aiuti a colmare i suoi dubbi e le sue incertezze. Una cosa evidentemente possibile, solo a condizione che il quadro riesca ad emozionarlo! Quella di “emozionare”, resta la missione primaria dell’arte! Questo, forse, spiega un apparente paradosso: per me, mentre è abbastanza facile raccontare un mio “progetto pittorico”, non lo è altrettanto spiegare un singolo quadro……! Nei miei incontri, spero, addirittura, che si realizzi il contrario: che sia l’osservatore ad allargare la mia comprensione della opera finita…..! In sostanza, l’intreccio delle relazioni di cui ho detto finora è così complesso e difficile, perché è incentrato sul fatto che l’artista non possa dire tutto di sé; a maggior ragione, non è corretto pensare che possa elargire messaggi! L’opera, più che l’artista, può, invece, aiutare l’osservatore a svelare e soddisfare i propri enigmi e le proprie incertezze (non solo quelli che nascono dall’incontro col quadro!). Chiudo con l’auspico, un po’ di egoismo, che l’incontro tra un pubblico attivo, l’opera d’arte e l’artista diventi, in ogni caso, utile per arricchire e ampliare sul piano pratico la sperimentazione dell’artista.

Da cosa deriva la scelta del rosso e del nero? 

Nei primi anni di questo secolo, ho dedicato la mia attività a due progetti pittorici che hanno fatto da spartiacque tra la fase delle esperienze figurative e quell’attuale. Due progetti dal titolo emblematico: il primo, “l’occhio di Mnemosine”; alludeva totalmente al mio vissuto, trasferendo nei quadri elementi sottratti in modo selettivo al ricordo o la trasfigurazione di situazioni più o meno emergenti dalla memoria. L’altro, “parole tra il rosso e il nero”, che, per quanto nato da ragioni intimistiche, di fatto, ha ribaltato i canoni rassicuranti con i quali, per decenni, avevo portato avanti la mia attività, dedicandola al mondo visibile. Le opere esposte nell’ultima mostra sono, appunto, tra i prodotti più recenti di questo secondo progetto, nato tra il 2006 e il 2007, in seguito al ritrovamento casuale di lettere familiari, che ho deciso di utilizzare come materiale pittorico. Lettere e frammenti di lettere semidistrutte dal tempo e in parte dimenticate, che, oltre a “trasferirmi”, in modo inaspettato, in tempi e situazioni che avevano “modellato” la mia vita in modo significativo, mi hanno suggerito una nuova sperimentazione. Parole, misteriosamente “riemerse”, che si sono messe a navigare nella mia mente, con domande impegnative e risposte non sempre felici, e che mi hanno suggerito un problematico impegno di riuso. Un’operazione, dicevo, non semplice, perché quei documenti parlavano di luoghi e persone che, molti anni prima, avevo lasciato non senza problemi, e la decisione di rivitalizzarli non poteva essere un gesto compensativo, né un tentativo di riconciliazione! Solo un modo di restituire positivi “conflitti” e profonde emozioni in qualcosa che fosse trasmissibile; un utile innesco per un “progetto pittorico”! Il risultato, per me, è stato straordinario perché la “rilettura” e la decisione del riuso, mi hanno dato l’emozione di evocare sperimentando e di sperimentare evocando! Scomponendole e ricomponendole ho subito capito che le parole, da sole, mi avrebbero orientato verso una esercitazione segnica troppo neutrale, o, peggio, verso evocazioni troppo intimistiche. Contro questi rischi, il mio interesse era, invece, di avviare una sperimentazione di semeiotica pittorica nuova, più complessa e duratura, senza, per questo, annullare gli aspetti simbolici del ritrovamento. Ho subito capito che era necessario un linguaggio contaminato e più articolato; ho, così, pensato di utilizzare il ruolo dialogante del colore e l’interferenza delle geometrie. Capii anche che, per iniziare, non avevo bisogno di una tavolozza particolarmente ricca, mi bastavano solo due colori, e la scelta fu immediata e spontanea: il rosso e il nero ! Ho riflettuto, con calma e lavorando, sulla legittimità simbolica di questi due colori e alla loro appropriatezza rispetto ai miei obiettivi:    Il rosso è il colore dei sentimenti, delle passioni e della sensualità, della vitalità, della sicurezza e della fiducia, dell’autostima, della gioia e dell’aggressività. Il nero, da molti considerato un non colore, una negazione assoluta, è la tinta dell’opposizione, dietro la quale può esprimersi una rivendicazione di potere e uno scontro generazionale; è anche il colore che meglio di altri svolge un ruolo di sfondo, consentendo una lettura del quadro dal suo interno; se ben usato, può avere una “luminosità” inaspettata, importante per esaltare gli elementi che vi si sovrappongono; è il simbolo dell’assenza e del lutto; ma anche il colore che meglio di altri induce alla riflessione e alla ragione.Simboli e riferimenti, riflessioni e decisioni che risultarono “giusti” rispetto all’importanza del mio ritrovamento e alla speranza di avviare un progetto importante e duraturo!

Quanto l’architettura è presente nel suo lavoro pittorico?

Credo molto, non poteva che essere così: ho esercitato questi due mestieri per tanto tempo, con analoga dedizione e passione; ne sono scaturite inevitabili sinergie, ma anche vitali conflitti e differenze, per i diversi condizionamenti esterni. Faccio, quindi, fatica a sostenere di aver fatto il pittore da architetto o l’architetto da pittore! Le sinergie e le familiarità più dirette sono in parte strumentali e riguardano la “manipolazione” dei campi geometrici; ma anche il fatto che pittura e architettura condividono, anche se con un diverso senso del limite, la contraddizione, per me vitale e indispensabile, tra le ragioni razionali e le spinte irrazionali e visionarie delle decisioni. Due strade divergenti che, magicamente, possono e debbono condurre a mete unitarie. La prima strada si muove nello spazio mentale dell’”ordine”, della razionalità e dell’organizzazione, e mi porta a istruire bene gli obiettivi e mezzi, oltre a guidarmi nel tracciare linee e vettori di forze che connettono in modo strutturato superfici ed elementi. L’altra, mi porta, invece, in uno spazio gremito di visioni, e mi fa riempire i supporti di segni e materiali, in modo più libero e appassionato, con uno sforzo di adeguamento dell’opera alla totalità del mio pensiero pittorico o architettonico; trascinandovi situazioni pensante e altre appena percepite, pensieri raffigurabili e, altri, non raffigurabili. Se esistono queste familiarità, esistono anche importanti differenze: In pittura non si può prescindere da un avanzamento instabile, che non va inteso come semplice evoluzione. L’evoluzione, come l’innovazione, è, più direttamente, obiettivo dell’architettura. La pittura, dicevo, deve incarnare il bisogno di vivere nell’instabilità; la fuga continua da ogni rassicurante consuetudine; il godimento del “viandante”, (o, forse, in modo più problematico, il tormento di Sisifo!); il bisogno di ”navigare in mare aperto”, anche rischiando qualche naufragio e senza necessariamente porsi l’obiettivo dell’arrivo. Per contro, l’architettura, condizionata da uno scopo, oltre che dall’avanzamento delle scienze sociali e dall’innovazione dei materiali e delle tecniche, è arte di confine (come la definisce Piano) e s’identifica con l’obiettivo e la responsabilità del “viaggiatore” di arrivare in porto. In quanto arte servile (così la definisce Tommaso d’Aquino), fatta per essere abitata ed essere ancorata alla terra, ha, rispetto alla pittura, l’obbligo di rassicurare, di dar conto delle sue scelte; deve essere controllata e legittimata! A conferma di ciò è, fra l’altro, il fatto che nella ricerca “aperta” dell’arte è ammessa l’opera non finita, cosa, ovviamente, non consentita all’architettura. La pittura, infine, è felicemente libera dalla schiavitù del tempo; in architettura il tempo è, invece, un nemico da combattere; se non altro, per la finitezza fatale dei suoi materiali che confligge con l’ansia di produrre opere “eterne”.

Cosa pensa dell’arte contemporanea? Si fa abbastanza per valorizzare il settore, o si potrebbe fare di più?

Per una persona della mia generazione il termine “contemporaneo” si riferisce, inevitabilmente, a un periodo assai ampio che coinvolge tutte le forme di modernismo, le diverse correnti del post-modernismo e le più recenti e variegate tendenze di arte concettuale…Un campo assai ampio e variegato, dicevo, che ha forgiato la mia sensibilità e la mia cultura pittorica, ma rispetto al quale ho sempre cercato di difendere la mia autonomia. Non certo per snobismo, ma per una naturale avversione verso ogni forma di collocazione e appartenenza che, se rassicurante (o, forse, proprio perché troppo rassicurante!), è quasi sempre legata a un bisogno strumentale di legittimazione. Ciò, evidentemente, non significa che, in pittura come in architettura, mi sia sottratto al confronto personale e pubblico sulle mie posizioni produttive e sulle mode che negli ultimi decenni hanno alimentato i due settori. Parlando, in particolare, di pittura, e riprendendo cose già dette, credo che questo bisogno di autonomia abbia a che fare con l’idea che il privilegio dell’arte sia da ricercare nell’invisibile e nell’assoluto non raffigurabile (citando Recalcati…) e che la sua missione sia la ricerca da parte dell’artista del suo essere; un avanzamento permanente sperando di incontrare il daimon che è in ognuno di noi. Picasso, interrogato sull’evoluzione dei suoi quadri, dichiarò: “Io non mi evolvo, Io sono!”. Una posizione nella quale mi riconosco, ritenendo che il fine più alto dell’artista sia quello scavare in questo “io sono! ”, navigare tra i segreti più profondi nella propria psiche, dando risposte alle proprie incertezze e alle proprie domande; un fine assolutamente maieutico..! Lavorare laicamente su questo, senza alcun dogmatismo, significa, inevitabilmente, sottrarsi a ogni forma di appartenenza e/o di omologazione. Credo che queste elaborazioni mi abbiano spinto in modo naturale verso una cultura e un’azione da laboratorio. E quest’idea mi aiuta a rispondere alla seconda parte di questa sua domanda (cosa si può fare…?), con un invito implicito alla politica: Sarebbe importante valorizzare e promuovere in modo diffuso il fare arte e l’arte del fare, attraverso laboratori “aperti”, che operino in modo decentrato sul territorio, specie nelle periferie, dove sono sempre più urgenti politiche di recupero e integrazione; aprire luoghi pedagogici di questo tipo, col coinvolgimento personale e diretto  degli artisti, innescando azioni di confronto creativo, non competitivi, ma conoscitivi ed educativi. Riconoscendole questa missione, l’arte dovrebbe essere incoraggiata e rivalutata, proprio collocandola in tutte le filiere educative istituzionali; non solo come studio storico-critico, ma come un esercizio personale e collettivo che sappia nutrire le coscienze. Voglio esprimere un altro auspicio: quello che si apra presto un dibattito chiarificatore sulle diverse forme dell’arte contemporanea, eliminando equivoci e rischiose prevaricazioni. Occorrono chiarimenti urgenti sui conflitti che contrappongono i tre sub-settori dell’arte: quello “oggettuale” nel quale opero; l’arte del visibile multimediale e interattivo, in cui le neotecnologie tendono ad essere predominanti e prevaricati rispetto al pensiero creativo; infine, l’arte performativa dell’artista, che, spesso, in modo estremo, smaterializza l’azione artistica, alimentando una cultura concettuale del corpo e della teatralità. Da tempo, le allocazioni delle risorse e le attenzioni comunicative si sono spostate in modo prevaricante in favore della seconda e della terza tipologia, a scapito della prima; teorizzandone addirittura la fine! Credo che questa tendenza presenti gravi rischi e che il tema richieda un ampio, urgente e disinteressato dibattito pubblico, con il coinvolgimento dei critici e degli artisti.

Per concludere: per lei la pittura è un mezzo o un fine?

Per me che privilegio il pensiero creativo rispetto a quello critico, non è facilissimo rispondere a questa domanda. Non volendo, comunque, sottrarmi, proporrò qualche riflessione, evitando facili semplificazioni tautologiche, un rischio che si corre sempre trattando certi argomenti da non specialista. Credo che l’arte sia sostanzialmente fine a sé stessa, essendo, al pari della religione, connessa con l’origine e con la sfera evolutiva dell’uomo. Escludendo i casi in cui è condizionata da finalità commerciali, anche nella fase in cui si mette a dialogare con l’esterno, diventando pubblica, penso che dovrebbe affrontare il confronto con assoluto disinteresse, sensibilizzando, ma senza obblighi etici o di conoscenza. La sua autonomia e la necessità di un suo assoluto disinteresse non ci consentono di ipotizzare un suo significato di “mezzo”. Tutto ciò, ovviamente, è riferito a “fini alti e remoti”, come quello, richiamato, che porta a raffigurare il non raffigurabile.Credo sia più semplice fare qualche considerazione sulle dipendenze tra mezzi e fini, all’interno dell’azione dell’artista. In essa, i mezzi sono chiaramente i materiali e le tecniche di cui l’artista dispone e il fine è un obiettivo parziale che ha a che fare con l’avanzamento progressivo dell’opera e/o del progetto pittorico. Questo percorso è più percorribile, per quanto, non del tutto lineare, perché nelle filiere realizzative dell’arte i processi elaborativi e trasformativi fanno si che i mezzi spesso diventino fini parziali, e il fine raggiunto, per contro, può assumere il ruolo di mezzo, per il raggiungimento di un fine superiore e per l’avanzamento progressivo del “progetto”.






-Beatrice Ciotoli-

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